Lavorare nel giorno dei morti.

Oggi sono stata al lavoro, nel mio solito ufficio, alla solita scrivania, con il solito orario. Ho mangiato il pranzo che mi ero portata da casa (riso con carote e piselli) davanti al pc, anche questo come sempre.

Di solito ne approfitto per guardarmi qualche video che mi incuriosisce, oggi invece niente. La rete per tutta la giornata è stata lentissima, apriva la posta, un paio di programmi e poco più. Tutto solito, quindi, oggi, cosa c’è in fondo di strano a lavorare un giorno qualunque in mezzo alla settimana di un autunno come gli altri? Niente, forse, ma non per tutti. Per me, che sono siciliana, lavorare il due novembre è sempre un fastidio. Il due novembre è il giorno dei morti, il giorno in cui ci si alza la mattina presto per vedere che regali ci hanno lasciato la notte prima, e no, non si lavora. Al massimo si va a fare un giro alle bancarelle, a vedere che dolci ci sono. Nonostante io viva lontano da più di vent’anni, il giorno dei morti per me rimane questo. E sì, andare a lavorare mi dà molto molto fastidio. E in qualche modo, trovo la maniera per ribadirlo anche in quello che scrivo.

“Le preoccupazioni di Antonio, preoccupazioni da geometra anziano, capocantiere del lavoro, a novembre si attenuavano un po’, nonostante i bollettini mattutini. Era merito della nebbia, che sfumava tutto, il paesaggio, le persone, i rumori. A volte persino i pensieri. Con la nebbia avvenimenti misteriosi potevano prendere piede. Gli autisti potevano tornare indietro dalla cava dopo una ventina di minuti, e non dopo due ore. I polacchi parlavano la sua lingua, e potevano comunicare finalmente, e non per discutere di consistenza del getto o di tempi di indurimento, ma di ricette per il pranzo di Natale. Di spezzatino piccante di carne, che aveva sentito dire che dalle loro parti lo facevano molto buono. Con la nebbia anche i massi della difesa cominciavano a parlarsi fra di loro, a fare amicizia e a raccontarsi storie, visto che il destino comune li aveva catapultati là, uno vicino all’altro, come marziani su un pianeta sconosciuto.
Per questo Antonio non era di malumore quella mattina, nonostante tutto. Nonostante il broncio di Luisa sulla porta, i problemi con il geometra Conte la settimana prima, le fissazioni di Nando. E il suo mal di schiena, è chiaro. Doveva solo avere pazienza, e tenere duro. Gli mancavano solo un mese di contributi. Un mese di contributi e sarebbe andato in pensione.
Dopo aver parcheggiato e salutato tutti con un cenno era sceso dentro allo scavo. Aveva preso il piccone per togliere via le radici che ancora si vedevano affiorare. Il geometra aveva detto che lo voleva perfetto, quello scavo, e lui allora aveva deciso di dedicarcisi personalmente, in solitudine. Pulizia doveva essere, e pulizia sarebbe stata, anche se a dire il vero, nonostante il favore della nebbia, c’era ancora qualcosa che lo impensieriva. Non un pensiero vero e proprio, di quelli definiti, con un inizio, un cuore centrale e una fine. Più un fastidio, come un prurito a un piede, di quelli che sembrano niente ma poi comincia a grattare, grattare grattare, e non passano, anzi aumentano.
Erano state così tante le cose successe in quei pochi mesi. Del fatto che Conte lo aveva licenziato Antonio a Luisa non aveva detto niente. Era uscito, come ogni mattina, facendo finta di niente, per due settimane. Era uscito, facendo finta che il furgone fosse a riparare. Aveva preso la macchina e aveva girato per le campagne, cercando un posto dove nascondersi. Il motore sempre acceso, per combattere quel gelo che sì, adesso sentiva, anche se il freddo non era ancora arrivato. Dopo due settimane di vagabondaggio disperato si era deciso, e si era presentato in cantiere e aveva pregato Conte di riprenderlo a lavorare. Un mese di contributi, gli mancava solo un mese di contributi per la pensione. E Conte se lo era ripreso. In fondo era pur sempre il capocantiere più in gamba di tutti.
-Lo hanno messo a posto, finalmente?, gli aveva chiesto Luisa quella sera, vedendolo tornare con il furgone, e Antonio aveva fatto cenno di sì, senza dire altro. Solo un mese. Fino a quel giorno.
Era stata Luisa, quella mattina, a ficcargli quel prurito in testa. In cucina, dritta davanti al frigo con la sua tazzina di caffè in mano. Ah ma oggi lavori?, gli aveva detto, e al suo sguardo aveva fatto marcia indietro. Certo, certo, non è come da noi. Aveva poggiato la tazzina direttamente nel lavello, e di spalle aveva concluso Ma tanto è l’ultimo anno che non la passiamo insieme.
Antonio aveva annuito, ma senza replicare niente. Solo sul furgone si era sentito prendere da un prurito alla testa. Due novembre. I morti. Venerdì. Solo preso il piccone si era reso conto che quel prurito gli si era propagato lungo il corpo, fino a raggiungere i piedi.”

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vgalletta

Nata e cresciuta a Siracusa, ha trascorso parte dell'infanzia a Ozieri, in Sardegna, e da anni vive a Livorno. È laureata in ingegneria civile idraulica a Catania, materia in cui ha conseguito anche un dottorato di ricerca, e ha lavorato come ingegnere idraulico prima di intraprendere la carriera di scrittrice a tempo pieno. Ha scritto numerosi racconti pubblicati su riviste e quotidiani. Nel 2013 il monologo "Sutta al giardino" le è valso il premio per monologhi teatrali “Per Voce Sola” del Teatro della Tosse di Genova. Nel 2017 il suo romanzo inedito "Pelleossa" è arrivato tra i finalisti della III edizione del premio Neri Pozza. Con il romanzo "Le isole di Norman", già finalista alla XXVIII del Premio Calvino, ha vinto il Premio Campiello Opera Prima 2020. Il suo romanzo "Nina sull'argine", uscito a ottobre 2021 per minimum fax, è tra i 12 libri candidati al Premio Strega 2022.